sabato 29 settembre 2012

Dal Mais alla Pellagra

 


 

Rapida introduzione della coltivazione del mais in Italia. Iniziazione, progressione e declino della pellagra

di Giuseppe, Salvatore PALADINO
Il mais, dopo il XVII secolo, aveva liberato gran parte della popolazione dalla dipendenza alimentare cerealicola tradizionale, ma al contempo aveva dato il via ad un’ulteriore breccia nelle difese sanitarie dell’organismo umano.
Anche nelle regioni della Francia, Spagna, Romania, fra i negri e le popolazioni meno abbienti del sud degli USA, il mais è stato oggetto di utilizzo alimentare per la popolazione, ma le ripercussioni sotto forma di pellagra nei suoi diversi stadi della patologia non acquistarono quella intensità che caratterizzò l’Italia settentrionale per l’intero XIX secolo e oltre. La pellagra non era solo legata all’alimentazione a base di mais, ma dipendeva anche e soprattutto dai modi con cui il cereale era preparato e mangiato. I Popoli delle civiltà Azteca e Maya lasciavano in ammollo il mais per renderlo commestibile con l’acqua di calce una soluzione alcalina (tecnica detta di nixtamalizzazione). Questo processo permetteva di rendere “biodisponibili” per la digestione la vitamina Niacina e un importante aminoacido, il triptofano, che, a sua volta, si converte in niacina. L’antica pratica di mettere l’impasto di mais a bagno per una notte in acqua di calce prima di fare le tortillas non fu mai trasmessa a quei paesi del Vecchio Mondo nei quali fu diffuso il mais, o alle comunità il cui alimento principale era costituito dal mais. Questo, quasi inevitabilmente, portò alla diffusione della malattia da carenza di niacina: la pellagra. Italo Giglioli, fra gli altri, fin dai primissimi anni del ’900 pur non possedendo nessuna nozione vitaminica, aveva individuato perfettamente il nocciolo della situazione, insistendo sui danni provocati dall’alimentazione “quasi esclusivamente maidica di gran parte dei nostri contadini”, ma soprattutto dei contadini di quelle parti d’Italia dove la farina di granoturco si consuma sottoforma di mal preparata polenta mangiata insipida e priva di condimenti impedendo il rialzo del valore nutritivo. L’elemento scatenante, in effetti, consisteva non tanto nella polenta in se e per se, quanto nel suo bassissimo valore nutritivo da un punto di vista vitaminico, ma questo lo si appurò molti anni dopo, quando si scoprì che il processo di bollitura, necessario alla farina di granoturco per essere trasformata in polenta, liberava e disperdeva anche quella minima quantità di vitamina PP (del gruppo B) in essa contenuta. Non essendo tale perdita compensata in altra maniera, si presentavano a lungo andare manifestazioni diarroiche e cutanee e in fine più o meno accentuate forme di demenza con tendenze suicide.
Clinicamente, la malattia è identificata dalle tre D: – dermatite, diarrea e demenza – e, se non viene curata, la pellagra può portare alla morte nel giro di quattro o cinque anni. All’ ultimo stadio della malattia, a volte c’era il ricovero in manicomio, di individui in prevalenza maschile, braccianti, con psicosi differenti ma in molti casi più che di cure mediche specifiche avevano semplicemente bisogno di mangiare.“Essere un pellagroso comportava diversi disagi e significava inoltre essere etichettati con un marchio infamante. Tuttavia, adattarsi ad essere un pellagroso, poteva essere la strada giusta talora, si voleva essere ammessi alle locande sanitarie e mangiare in maniera gratuita e si aveva anche la possibilità d ricevere a titolo gratuito in base alla legge 427 del 21/07/1920 alcuni kg di sale”. Né la pesca delle rane (nelle zone del Po’), né i furti potevano essere considerati rimedi affidabili, anche se in determinate circostanze hanno consentito di far sopravvivere intere famiglie di contadini che dopo il 1869 si trovavano stretti fra la tassa del macinato e una drastica e progressiva riduzione delle giornate di lavoro.
Ai malati di pellagra ricoverati nelle apposite strutture si tendeva a dare un pasto abbondante più che variato. Come una cattiva alimetazione poteva far precipitare nella malattia, così una terapia alimentare (che spesso era anche l’unica strada percorribile) poteva restituire la salute. Di questo i primi ad esserne convinti furono i medici. Per tentare di frenare la diffusione che nel 1776 era considerata come nuova malattia, il proclama proibiva a chiunque di raccogliere da fondi allagato granoturco inacidito e di farne uso come cibo destinato all’alimentazione umana. La Pellagra si presenta come malattia sociale, che colpiva esclusivamente le classi povere perchè non si potevano permettere di aggiungere altri alimenti per innalzare il valore nutritivo del pasto come potevano logicamente fare quelli che godevano di una certa agiatezza.
Il mais, dopo il XVII secolo, aveva liberato gran parte della popolazione dalla dipendenza alimentare cerealicola tradizionale, ma al contempo aveva dato il via ad un’ulteriore breccia nelle difese sanitarie dell’organismo umano. Anche nelle regioni della Francia, Spagna, Romania, fra i negri e le popolazioni meno abbienti del sud degli USA, il mais è stato oggetto di utilizzo alimentare per la popolazione, ma le ripercussioni sotto forma di pellagra nei suoi diversi stadi della patologia non acquistarono quella intensità che caratterizzò l’Italia settentrionale per l’intero XIX secolo e oltre. La pellagra non era solo legata all’alimentazione a base di mais, ma dipendeva anche e soprattutto dai modi con cui il cereale era preparato e mangiato. I Popoli delle civiltà Azteca e Maya lasciavano in ammollo il mais per renderlo commestibile con l’acqua di calce una soluzione alcalina (tecnica detta di nixtamalizzazione). Questo processo permetteva di rendere “biodisponibili” per la digestione la vitamina Niacina e un importante aminoacido, il triptofano, che, a sua volta, si converte in niacina. L’antica pratica di mettere l’impasto di mais a bagno per una notte in acqua di calce prima di fare le tortillas non fu mai trasmessa a quei paesi del Vecchio Mondo nei quali fu diffuso il mais, o alle comunità il cui alimento principale era costituito dal mais. Questo, quasi inevitabilmente, portò alla diffusione della malattia da carenza di niacina: la pellagra. Italo Giglioli, fra gli altri, fin dai primissimi anni del ’900 pur non possedendo nessuna nozione vitaminica, aveva individuato perfettamente il nocciolo della situazione, insistendo sui danni provocati dall’alimentazione “quasi esclusivamente maidica di gran parte dei nostri contadini”, ma soprattutto dei contadini di quelle parti d’Italia dove la farina di granoturco si consuma sottoforma di mal preparata polenta mangiata insipida e priva di condimenti impedendo il rialzo del valore nutritivo. L’elemento scatenante, in effetti, consisteva non tanto nella polenta in se e per se, quanto nel suo bassissimo valore nutritivo da un punto di vista vitaminico, ma questo lo si appurò molti anni dopo, quando si scoprì che il processo di bollitura, necessario alla farina di granoturco per essere trasformata in polenta, liberava e disperdeva anche quella minima quantità di vitamina PP (del gruppo B) in essa contenuta. Non essendo tale perdita compensata in altra maniera, si presentavano a lungo andare manifestazioni diarroiche e cutanee e in fine più o meno accentuate forme di demenza con tendenze suicide. Clinicamente, la malattia è identificata dalle tre D: – dermatite, diarrea e demenza – e, se non viene curata, la pellagra può portare alla morte nel giro di quattro o cinque anni. All’ ultimo stadio della malattia, a volte c’era il ricovero in manicomio, di individui in prevalenza maschile, braccianti, con psicosi differenti ma in molti casi più che di cure mediche specifiche avevano semplicemente bisogno di mangiare.“Essere un pellagroso comportava diversi disagi e significava inoltre essere etichettati con un marchio infamante. Tuttavia, adattarsi ad essere un pellagroso, poteva essere la strada giusta talora, si voleva essere ammessi alle locande sanitarie e mangiare in maniera gratuita e si aveva anche la possibilità d ricevere a titolo gratuito in base alla legge 427 del 21/07/1920 alcuni kg di sale”. Né la pesca delle rane (nelle zone del Po’), né i furti potevano essere considerati rimedi affidabili, anche se in determinate circostanze hanno consentito di far sopravvivere intere famiglie di contadini che dopo il 1869 si trovavano stretti fra la tassa del macinato e una drastica e progressiva riduzione delle giornate di lavoro. Ai malati di pellagra ricoverati nelle apposite strutture si tendeva a dare un pasto abbondante più che variato. Come una cattiva alimetazione poteva far precipitare nella malattia, così una terapia alimentare (che spesso era anche l’unica strada percorribile) poteva restituire la salute. Di questo i primi ad esserne convinti furono i medici. Per tentare di frenare la diffusione che nel 1776 era considerata come nuova malattia, il proclama proibiva a chiunque di raccogliere da fondi allagato granoturco inacidito e di farne uso come cibo destinato all’alimentazione umana. La Pellagra si presenta come malattia sociale, che colpiva esclusivamente le classi povere perchè non si potevano permettere di aggiungere altri alimenti per innalzare il valore nutritivo del pasto come potevano logicamente fare quelli che godevano di una certa agiatezza.

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