domenica 30 settembre 2012

La cottura degli alimenti: arte o scienza?



La qualità degli alimenti è un parametro della qualità della vita. Il lavaggio e la cernita sono delle tecnologie semplici. Il frutto più grande ha meno intensità di profumo perché è pompato di acqua. Da una produzione di buona qualità si possono ottene re trasformati di buona qualità se non si sbaglia il processo. Da un prodotto di qualità inferiore difficilmente posso ottenere un prodotto di buona qualità. La composizione e conservazione delle materie prime sono dei parametri che influenzano da qualità degli alimenti. Il frutto che viene staccato dall’albero continua la sua evoluzione. Esso sviluppa calore e gas che interagiscono con un ulteriore maturazione. Controllare o eliminare gas o aggiungerne molti altri è importante per aumentare la shelf-life.  
Il prodotto alimentare deve essere prodotto nei tempi giusti determinati dalla natura e si deve consumare in poco tempo. I tempi di maturazione possono essere accelerati  o meno. Il prodotto che viene trasformato deve aver sottocontrollo i v ari processi ma questo,  è un parametro facile ma la materia prima  non è identica. Viene fatto poco controllo sul prodotto finito, si fa il controllo sulla materia prima (pollo ad esempio con l’ausilio della genetica) guardando l’alimentazione fino alla trasformazione(macellazione), questo controllo di filiera può essere fatto con più efficienza se l’azienda che alleva i polli è anche un’azienda mangimificio e ha i luoghi di macellazione. La conservai onde dopo la trasformazione (a volte anche prima) è sempre una fase critica.prevedono dei trattamenti termici (freddi o caldi). Il calore ha un vantaggio di tipo microbico ma hanno il problema di trasformare l’alimento con molecole non gradevoli. La produzione artigianale di alimenti è di tipo tradizionale. Nella produzione a livello domestico si improvvisa ( consumare ciò che piace è più facile e gradevole di consumare ciò che non piace però bisogna consumarlo comunque).

Spaghetti alla chitarra tiepidi con verdure croccanti, crostacei e olio allo scalogno


Ingredienti per 5 persone:
400 g di spaghetti alla chitarra,
400 g di crostacei sgusciati,
40 g di sedano,
40 g di carote,
20 g di peperone rosso,
20 g di peperone giallo,
20 di zucchine,
4 l fumetto di crostacei,
brodo vegetale,
50 g di olio allo scalogno,
2 scalogni,
erba cipollina,
sale e pepe


E’ una ricetta gustosissima e semplice da preparare. Il condimento può essere preparato con qualche ora di anticipo mentre la pasta può essere cotta prima dell’arrivo degli ospiti o mentre devono l’aperitivo.

Procedimento
Tagliare le verdure a cubetti di 5 mm di lato.  Saltare separatamente in una padella unta con olio per pochi istanti  (devono rimanere croccanti). Versare le verdurine in una ciotola sufficientemente grande per contenere pasta e condimento. Deglassare la padella ad ogni cottura con un mestolino di brodo vegetale, farlo ridurre ad un cucchiaino e aggiungerlo alle verdure. Cuocere al vapore i crostacei già sgusciati e privati del budellino dorsale (usate le carcasse per preparare il fumetto). Tagliarli a pezzi non troppo grandi. Cuocere gli spaghetti nel fumetto, scolarli e lasciarli raffreddare  allargandoli su una placchetta unta con olio aromatizzato  con lo scalogno. Aggiungere gli spaghetti e i crostacei alle verdure. Salare  e pepare e mescolare il tutto. 
Presentazione Sistemare gli spaghetti al centro dei piatti e guarnire con qualche erba aromatica e un filo dell’olio rimasto nella placchetta.

Nota. E’ possibile sostituire i crostacei con 1 Kg di vongole veraci, fatte aprire in padella con un filo dell’olio, aglio e prezzemolo e successivamente  sgusciate, oppure con polpo bollito, spellato e tagliato a pezzi o con cubetti di pesce a polpa soda, rapidamente saltati in padella. Non disponendo di spaghetti alla chitarra si possono usare  280-300 g di spaghettini di semola o,  meglio ancora, 240 g di sottilissimi maccheroncini di Campofilone (è una tipica pasta all’uovo marchigiana, una sorta di tagliolini sottili come i capelli d’angelo).
           


sabato 29 settembre 2012

Amore Piccante

Il peperoncino dai molti usi non finisce mai di stupire. È una pianta rustica facile da coltivare. Contiene più vitamina C delle arance, disinfetta la mucosa intestinale e stimola il piacere sessuale

Dal suo arrivo nel Vecchio Mondo e a seguito dei numerosi scambi che si verificarono tra Paesi lontani, il peperoncino si è evoluto in numerose specie; ha assunto nuove forme e nuove intensità di piccantezza a seconda della geografia, delle caratteristiche genetiche, dal luogo in cui viene coltivato e adoperato. Il peperoncino piccante era usato come alimento nel continente americano fin da tempi antichissimi. Dalla testimonianza di reperti archeologici viene segnalato già nel 5.500 a.C. in Messico ed Ecuador, presente in quelle zone come pianta coltivata, ed era la sola spezia usata dagli indiani del Cile e del Messico. Però si ritiene che il suo consumo risalga ad almeno il 7500 a.C., e che si tratti di una delle primissime specie coltivate in quel centro di origine dell’agricoltura. Quando si pensa al peperoncino, le prime immagini che ci scorrono nella mente ci rimandano agli altopiani delle Ande ( zona originale di provenienza) o alla Calabria. In realtà la sua rusticità permette una crescita ottimale in tutta la penisola italiana. Colombo intuisce e sostiene le qualità nutritive e medicamentose del peperoncino, che trova in abbondanza e gli sembra migliore del pepe. E infatti già dal secondo viaggio, Colombo porta in Spagna il peperoncino e lo diffonde avviandone la coltivazione della pianta nel vecchio mondo. Si immaginava che questa potesse essere una spezia da importare con interessante profitto, ma ci si accorse ben presto che era più semplice e conveniente coltivarla direttamente in Europa.
La sua rusticità ne ha permesso una diffusione planetaria
Coltivare il peperoncino è infatti abbastanza semplice, questa è una delle ragioni che ne hanno permesso una diffusione planetaria. Ciò che conta principalmente è di poter usufruire di luce e calore per un arco di tempo sufficientemente ampio. Alcuni aspetti della coltivazione del peperoncino richiedono una certa attenzione: una concimazione non eccessiva, un’irrigazione molto attenta, un adeguato sostegno delle piante – aspetto colturale abbastanza trascurato nei piccoli orti – e una raccolta accurata data la delicatezza dei frutti. In compenso questo ortaggio è capace di dare il proprio prodotto per un lungo periodo e i peperoncini, conservati con differenti modalità, possono arricchire la mensa per quasi tutto l’anno. Nella fase di ingrossamento dei frutti è necessario irrigare spesso ma con limitate quantità d’acqua a mezzo di manichette preferibilmente. La semina viene normalmente effettuata in serra riscaldata da gennaio a marzo, con trapianto in pieno campo da fine aprile a fine maggio. Questo permette alla pianta di completare il proprio ciclo vegetativo e produttivo prima della successiva epoca delle gelate.

Non sopporta il gelo ma se adeguatamente “curata” può restare in vita per diversi anni
Nessuna delle varietà coltivate sopporta il gelo e può soccombere se non adeguatamente protetta. Chi desidera mantenere le piante per l’anno successivo, dovrebbe pertanto coltivarle in vaso e riporle al riparo dal gel, ma con un’adeguata fonte luminosa. Per quanto riguarda il terreno, il peperoncino predilige un terreno di medio impasto, ben strutturato e ben dotato di sostanza organica. La rotazione è importante per evitare i fenomeni di stanchezza del terreno e lo sviluppo di parassiti ed infestanti. La raccolta può avvenire da luglio a ottobre con i frutti che a piena maturazione saranno sempre rossi o al massimo sul giallino. Oggi nel mondo vengono coltivate numerose varietà di peperoncino, differenti per grandezza e forma del frutto , soprattutto per livello di piccantezza. Botanicamente appartiene alla famiglia delle Solanacee ( stessa famiglia di patate e pomodori) e il suo nome scientifico è capsicum. Le cinque specie coltivate sono il Capsicum annuum, il Capsicum baccatum, Capsicum fruttescens ( ne fa parte il tabasco), Capsicum chinense ( che include alcune delle varietà più piccanti, come l’Habanero e il Bhut Jolokia) e il Capsicum pubescens. Di queste specie principali esistono poi centinaia di varietà.
Può avere varie funzioni in cucina: da semplice aromatizzante a ingrediente principale per la “concia” di alcuni salumi meridionali
Una delle principali caratteristiche del peperoncino è la versatilità. In cucina può essere utilizzato sia fresco che essiccato o in polvere per insaporire salse, sughi, ma anche carni, pesci, formaggi e salumi. In taluni casi può costituire non solo un aromatizzante, ma un ingrediente vero e proprio. Nel corso dei secoli è diventato uno dei principali condimenti utilizzati nella cucina mediterranea, in particolare nelle regioni del sud Italia che ne hanno fatto la base per diversi prodotti tipici regionali. Spicca tra queste la Calabria, dove il peperoncino è un vero e proprio culto, che offre tra l’altro diversi insaccati, tra cui la ‘Nduja, a base di carne e grasso di maiale e molto peperoncino in polvere. Armonizza bene il grasso, degustando i prodotti della salumeria calabrese si avvertono infatti sapori caldi e pieni dove i sapori sono esaltati senza essere coperti. Pur avendo un sapore forte e robusto ben si presta a completare una preparazione delicata come i bianchetti ( la neonata) che è una preparazione ittica a base di novellame di pesce dove Trebisacce, un piccolo porto ittico dell’Alto Jonio cosentino, rientra tra le zone di produzione più rinomate. Inoltre è uno degli ingredienti del cocktail Bloody Mary.
Non sono i semi che rendono il frutto piccante bensì il tessuto placentare
La capsaicina ( l’alcaloide maggiormente presente nel frutto che determina la piccantezza) si concentra nella parte superiore della capsula, dove ci sono ghiandole che la producono, diffondendosi poi lungo la capsula. Al contrario di quanto si crede comunemente, non sono i semi, ma la membrana interna, la placenta, che contiene la maggior parte di capsaicina: quindi è quasi inutile togliere i semi per ridurre la piccantezza del frutto, mentre è consigliabile togliere la placenta.
La piccantezza e la “scala di Scoville”

Le varietà di peperoncino sono molte ma tutti devono il loro sentore di piccante alla capsaicina. È contenuta nel peperoncino in diverse quantità e attiva le fibre nervose collegate ad un canale ionico. Il canale si apre lasciando passare ioni Na+ e Ca+ dove la depolarizzazione induce lo stimolo neurormonale al cervello. La biosintesi della capsaicina avviene nell’ovario del seme. Il tessuto placentare del frutto contiene la maggior quantità di capsaicina. La scala di Scoville misura l’intensità di piccante che, partendo dallo 0 per il peperone comune, arriva a 300.000 SHU per la varietà Habanero proveniente dal Messico , 577.000 SHU per l’Habanero Red Savina ed ora supera 1.000.000 SHU per la varietà Bhut Jolokia, Naga Moric e Dorset Naga. Da ustione! La scala di Scoville si basa proprio sulla quantità di capsaicina contenuta nel peperoncino e indica quante volte bisogna diluirlo in acqua zuccherina per avere un effetto nullo.
Il suo gusto trova spazio nelle preparazioni culinarie di tutto il pianeta
All’estero il peperoncino è usato molto in Messico (nelle salse, nel chili con carne), in Nordafrica (dove è alla base della harissa) ed in India. Le cucine indiana, indonesiana, cinese sono associate all’uso del peperoncino, sebbene la pianta sia arrivata in Asia solo dopo l’arrivo degli europei. Una volta macinato il peperoncino modifica l’intensità del gusto: il grado di piccantezza però varia non solo in base alla varietà di peperoncino scelta, ma anche in base al grado di maturazione: infatti più è maturo e più è forte. Inoltre lo stress ambientale, tra cui la siccità e il freddo, accentua il sapore piccante.
Un portento di vitamine e una marcata attività afrodisiaca
Il peperoncino è anche il cibo più ricco di vitamina C: ne contiene ben 229 mg per 100 g di prodotto ( praticamente cinque volte più delle arance) ed è anche ricchissimo di vitamina A, bisogna però considerare che, date le piccole dosi che se ne usano, l’apporto di vitamine non è altissimo. Grazie alla produzione di endorfine, il peperoncino agisce come antidolorifico sulla mucosa dello stomaco.
Agisce a livello intestinale come potente disinfettante. Gli effetti antiossidanti hanno portato alcuni studiosi ad ipotizzare effetti anticancerogeni. La capsaicina inoltre aumenta la secrezione di succhi gastrici, favorendo così la digestione. In alcune regioni meridionali si conserva la tradizione di preparare un infuso digestivo fatto con camomilla calda, un cucchiaino di peperoncino in polvere e addolcito con miele. Infine, un cenno alla virtù più decantata: quella afrodisiaca. Sembra che esista un legame tra il piacere piccante del peperoncino e quello dell’arte di amare, il segreto secondo gli scienziati sarebbe nell’attività vasodilatatrice che richiamerebbe il sangue nelle zone erogene stimolandone la funzionalità.
molandone la funzionalità.

Spegnere il “fuoco”
Per mitigare un eventuale eccesso di bruciore il metodo migliore è bere il latte, oppure yogurt o un qualsiasi formaggio a pasta morbida o latticino. La caseina infatti ha la capacità di rimuovere la capsaicina dai recettori nervosi. La capsaicina si scioglie molto bene anche nei grassi e nell’alcool, quindi anche prodotti grassi o bevande alcoliche aiutano a rimuovere la sensazione dolorosa. Per le alte concentrazioni, come nell’Habanero Red Savina o estratti vari, il modo più efficace è usare del ghiaccio come anestetico.

I salumi tipici calabresi

 


Nel nostro meridione quello che altrove viene chiamato salame, si chiama soppressata. Essa viene confezionata con le parti più magre del maiale allevato in proprio, con la coscia, i lombi e il filetto; carni tagliate e sminuzzate a mano con colpi fitti e precisi di lame di coltello, nei giorni più freddi di dicembre e gennaio.
Una volta insaccati e legati con grosso spago vengono bucherellati in più parti con un pennello di legno su cui sono fissate dozzine di aghi, per favorire la fuoriuscita dell’area rimasta all’interno. Le soppressate prendono questo nome dall’operazione di pressatura fatta sotto peso dentro ceste di vimini appositamente intessute in cui vengono adagiati i salami: grosse pietre squadrate premono fino a schiacciarle e rimangono cosi per 3 o 4 giorni. Successivamente essi vengono appesi ai travi del soffitto delle cucine e per circa 40 giorni assorbono l’aria calda e umorosa che viene dal focolare, dalle pentole e dalle pignatte dei sughi rossi. Anche il fumo profumato di foglie secche lascia la sua preziosa patina.
Vengono assaggiati e poi gustati, prima le salsicce e poi le soppressate; con l’accompagnamento di grandi bocconi di pane e piccoli ma frequenti bicchieri di vino nuovo. Il rimanente viene affogato nell’olio di oliva o nel grasso del maiale in recipienti cilindrici di terracotta smaltata. Questi modi di conservazione garantiscono la durata del salume per almeno un anno.
A monte della confezione si pone il problema della materia prima, evidentemente assai differenziata a seconda che si tratti di prodotti delle famiglie allevatrici o di stabilimenti artigianali o piccolo-industriali. La carne adoperata dalle famiglie allevatrici per la produzione di soppressate e salsicce da mettere sotto grasso, deriva da animali allevati quasi sempre nella zona stessa d produzione. Essi sono alimentati con mangimi tradizionali ricavati dall’azienda agricola. Il maiale al momento dell’uccisione ha quasi sempre superato l’anno di età per cui le carni sono sode, mature, più facile la frollatura.
La razza più usata è l’ibrido della Large Whitee della Landrace , ma è ancora possibile trovare qualche esemplare di maiale nero specialmente in zone della Sila e della Basilicata.
L’altaincidenza dell’autoconsumo, articolato in differenti stadi di economia familiare, rende particolarmente aleatoria la quantificazione dei costi di produzione ed anche delle vendite. Manca infatti un regolare merato e i costi della manodopera sono quasi sempre imputati, mai effettivi. Ciò premesso una ricostruzione può essere cosi tentata.
Calcolo dei costi per Kg di prodotto finito
Salsicce Soppressate
Materia prima 9.400 13.300
Budello, condimento 1.000 1.000
Manodopera 6.000 6.000
Ammortamenti 100 100
Costi generali 100 100
Costo di conservazione (Grasso) 1.000 1.000
Totale 17.600 Lit 21.500 Lit
I costi della materia prima sono diversi per i due prodotti in quanto per le soppressate viene utilizzata carne magra e scelta, più costosa della carne utilizzata per le salsicce.
tratto da : atlante dei prodotti tipici (salumi)

Dal Mais alla Pellagra

 


 

Rapida introduzione della coltivazione del mais in Italia. Iniziazione, progressione e declino della pellagra

di Giuseppe, Salvatore PALADINO
Il mais, dopo il XVII secolo, aveva liberato gran parte della popolazione dalla dipendenza alimentare cerealicola tradizionale, ma al contempo aveva dato il via ad un’ulteriore breccia nelle difese sanitarie dell’organismo umano.
Anche nelle regioni della Francia, Spagna, Romania, fra i negri e le popolazioni meno abbienti del sud degli USA, il mais è stato oggetto di utilizzo alimentare per la popolazione, ma le ripercussioni sotto forma di pellagra nei suoi diversi stadi della patologia non acquistarono quella intensità che caratterizzò l’Italia settentrionale per l’intero XIX secolo e oltre. La pellagra non era solo legata all’alimentazione a base di mais, ma dipendeva anche e soprattutto dai modi con cui il cereale era preparato e mangiato. I Popoli delle civiltà Azteca e Maya lasciavano in ammollo il mais per renderlo commestibile con l’acqua di calce una soluzione alcalina (tecnica detta di nixtamalizzazione). Questo processo permetteva di rendere “biodisponibili” per la digestione la vitamina Niacina e un importante aminoacido, il triptofano, che, a sua volta, si converte in niacina. L’antica pratica di mettere l’impasto di mais a bagno per una notte in acqua di calce prima di fare le tortillas non fu mai trasmessa a quei paesi del Vecchio Mondo nei quali fu diffuso il mais, o alle comunità il cui alimento principale era costituito dal mais. Questo, quasi inevitabilmente, portò alla diffusione della malattia da carenza di niacina: la pellagra. Italo Giglioli, fra gli altri, fin dai primissimi anni del ’900 pur non possedendo nessuna nozione vitaminica, aveva individuato perfettamente il nocciolo della situazione, insistendo sui danni provocati dall’alimentazione “quasi esclusivamente maidica di gran parte dei nostri contadini”, ma soprattutto dei contadini di quelle parti d’Italia dove la farina di granoturco si consuma sottoforma di mal preparata polenta mangiata insipida e priva di condimenti impedendo il rialzo del valore nutritivo. L’elemento scatenante, in effetti, consisteva non tanto nella polenta in se e per se, quanto nel suo bassissimo valore nutritivo da un punto di vista vitaminico, ma questo lo si appurò molti anni dopo, quando si scoprì che il processo di bollitura, necessario alla farina di granoturco per essere trasformata in polenta, liberava e disperdeva anche quella minima quantità di vitamina PP (del gruppo B) in essa contenuta. Non essendo tale perdita compensata in altra maniera, si presentavano a lungo andare manifestazioni diarroiche e cutanee e in fine più o meno accentuate forme di demenza con tendenze suicide.
Clinicamente, la malattia è identificata dalle tre D: – dermatite, diarrea e demenza – e, se non viene curata, la pellagra può portare alla morte nel giro di quattro o cinque anni. All’ ultimo stadio della malattia, a volte c’era il ricovero in manicomio, di individui in prevalenza maschile, braccianti, con psicosi differenti ma in molti casi più che di cure mediche specifiche avevano semplicemente bisogno di mangiare.“Essere un pellagroso comportava diversi disagi e significava inoltre essere etichettati con un marchio infamante. Tuttavia, adattarsi ad essere un pellagroso, poteva essere la strada giusta talora, si voleva essere ammessi alle locande sanitarie e mangiare in maniera gratuita e si aveva anche la possibilità d ricevere a titolo gratuito in base alla legge 427 del 21/07/1920 alcuni kg di sale”. Né la pesca delle rane (nelle zone del Po’), né i furti potevano essere considerati rimedi affidabili, anche se in determinate circostanze hanno consentito di far sopravvivere intere famiglie di contadini che dopo il 1869 si trovavano stretti fra la tassa del macinato e una drastica e progressiva riduzione delle giornate di lavoro.
Ai malati di pellagra ricoverati nelle apposite strutture si tendeva a dare un pasto abbondante più che variato. Come una cattiva alimetazione poteva far precipitare nella malattia, così una terapia alimentare (che spesso era anche l’unica strada percorribile) poteva restituire la salute. Di questo i primi ad esserne convinti furono i medici. Per tentare di frenare la diffusione che nel 1776 era considerata come nuova malattia, il proclama proibiva a chiunque di raccogliere da fondi allagato granoturco inacidito e di farne uso come cibo destinato all’alimentazione umana. La Pellagra si presenta come malattia sociale, che colpiva esclusivamente le classi povere perchè non si potevano permettere di aggiungere altri alimenti per innalzare il valore nutritivo del pasto come potevano logicamente fare quelli che godevano di una certa agiatezza.
Il mais, dopo il XVII secolo, aveva liberato gran parte della popolazione dalla dipendenza alimentare cerealicola tradizionale, ma al contempo aveva dato il via ad un’ulteriore breccia nelle difese sanitarie dell’organismo umano. Anche nelle regioni della Francia, Spagna, Romania, fra i negri e le popolazioni meno abbienti del sud degli USA, il mais è stato oggetto di utilizzo alimentare per la popolazione, ma le ripercussioni sotto forma di pellagra nei suoi diversi stadi della patologia non acquistarono quella intensità che caratterizzò l’Italia settentrionale per l’intero XIX secolo e oltre. La pellagra non era solo legata all’alimentazione a base di mais, ma dipendeva anche e soprattutto dai modi con cui il cereale era preparato e mangiato. I Popoli delle civiltà Azteca e Maya lasciavano in ammollo il mais per renderlo commestibile con l’acqua di calce una soluzione alcalina (tecnica detta di nixtamalizzazione). Questo processo permetteva di rendere “biodisponibili” per la digestione la vitamina Niacina e un importante aminoacido, il triptofano, che, a sua volta, si converte in niacina. L’antica pratica di mettere l’impasto di mais a bagno per una notte in acqua di calce prima di fare le tortillas non fu mai trasmessa a quei paesi del Vecchio Mondo nei quali fu diffuso il mais, o alle comunità il cui alimento principale era costituito dal mais. Questo, quasi inevitabilmente, portò alla diffusione della malattia da carenza di niacina: la pellagra. Italo Giglioli, fra gli altri, fin dai primissimi anni del ’900 pur non possedendo nessuna nozione vitaminica, aveva individuato perfettamente il nocciolo della situazione, insistendo sui danni provocati dall’alimentazione “quasi esclusivamente maidica di gran parte dei nostri contadini”, ma soprattutto dei contadini di quelle parti d’Italia dove la farina di granoturco si consuma sottoforma di mal preparata polenta mangiata insipida e priva di condimenti impedendo il rialzo del valore nutritivo. L’elemento scatenante, in effetti, consisteva non tanto nella polenta in se e per se, quanto nel suo bassissimo valore nutritivo da un punto di vista vitaminico, ma questo lo si appurò molti anni dopo, quando si scoprì che il processo di bollitura, necessario alla farina di granoturco per essere trasformata in polenta, liberava e disperdeva anche quella minima quantità di vitamina PP (del gruppo B) in essa contenuta. Non essendo tale perdita compensata in altra maniera, si presentavano a lungo andare manifestazioni diarroiche e cutanee e in fine più o meno accentuate forme di demenza con tendenze suicide. Clinicamente, la malattia è identificata dalle tre D: – dermatite, diarrea e demenza – e, se non viene curata, la pellagra può portare alla morte nel giro di quattro o cinque anni. All’ ultimo stadio della malattia, a volte c’era il ricovero in manicomio, di individui in prevalenza maschile, braccianti, con psicosi differenti ma in molti casi più che di cure mediche specifiche avevano semplicemente bisogno di mangiare.“Essere un pellagroso comportava diversi disagi e significava inoltre essere etichettati con un marchio infamante. Tuttavia, adattarsi ad essere un pellagroso, poteva essere la strada giusta talora, si voleva essere ammessi alle locande sanitarie e mangiare in maniera gratuita e si aveva anche la possibilità d ricevere a titolo gratuito in base alla legge 427 del 21/07/1920 alcuni kg di sale”. Né la pesca delle rane (nelle zone del Po’), né i furti potevano essere considerati rimedi affidabili, anche se in determinate circostanze hanno consentito di far sopravvivere intere famiglie di contadini che dopo il 1869 si trovavano stretti fra la tassa del macinato e una drastica e progressiva riduzione delle giornate di lavoro. Ai malati di pellagra ricoverati nelle apposite strutture si tendeva a dare un pasto abbondante più che variato. Come una cattiva alimetazione poteva far precipitare nella malattia, così una terapia alimentare (che spesso era anche l’unica strada percorribile) poteva restituire la salute. Di questo i primi ad esserne convinti furono i medici. Per tentare di frenare la diffusione che nel 1776 era considerata come nuova malattia, il proclama proibiva a chiunque di raccogliere da fondi allagato granoturco inacidito e di farne uso come cibo destinato all’alimentazione umana. La Pellagra si presenta come malattia sociale, che colpiva esclusivamente le classi povere perchè non si potevano permettere di aggiungere altri alimenti per innalzare il valore nutritivo del pasto come potevano logicamente fare quelli che godevano di una certa agiatezza.

Il peperoncino. Diversi utilizzi nella gastronomia dell’Alto Jonio calabrese

 

Il peperoncino

Diversi utilizzi nella gastronomia dell’Alto Jonio calabrese



 
 
Quando si pensa al peperoncino, le prime immagini che ci scorrono nella mente ci rimandano agli altopiani delle Ande( zona originale di provenienza), o alla Calabria. Cristoforo Colombo al ritorno dai suoi viaggi si immaginava che questa potesse essere una spezia da importare con interessante profitto, ma ci si accorse ben presto che era più semplice e conveniente coltivarla direttamente in Europa. L’alto jonio Cosentino così come tutta la Calabria offre a chi la visita una natura varia e una cucina dalle note piccanti e robuste. In cucina viene utilizzato sia fresco che essiccato o in polvere per insaporire salse, sughi, ma anche carni, pesci, formaggi e salumi. In alcuni casi viene impiegato non solo come aromatizzante ma proprio come ingrediente vero e proprio. Nell’alto Jonio Cosentino è spesso associato a cibi saporiti come la carne di maiale. L’esempio per antonomasia è la ‘Nnuglia, un insaccato fresco di carne di maiale, ottenuto dall’unione di carne suina di terza scelta unita a rene, lingua , polmone e stomaco bollito. L’impasto, salato viene arricchito di peperoncino ( nella quantità desiderata a seconda dei gusti) insieme al finocchietto selvatico calabrese e all’aglio. La ‘Nnuglia si gusta quasi fresca, con verdure come i cavoli e le verze. Viene prodotta soprattutto nell’alto Jonio cosentino ed è la versione meno nobile della ‘Nduja di Spilinga. Essa è un salume povero, molto piccante, morbido e spalmabile con estrema facilità. Appartiene alla tradizione gastronomica dell’altopiano del monte Poro, in provincia di Vibo Valentia. Il salume è reperibile in vasetti, commercializzato sottoforma di prodotto da spalmare oppure cotta con salsa con salsa di pomodoro come condimento della pastasciutta. Il peperoncino armonizza bene il grasso infatti degustando i prodotti della salumeria calabrese si avvertono infatti sapori caldi, pieni dove i sapori sono esaltati senza essere coperti. Il peperoncino pur avendo un sapore forte e robusto ben si presta a completare una preparazione delicata come i bianchetti ( la neonata) che è una preparazione ittica a base di novellame di pesce dove Trebisacce rientra tra le zone di produzione più rinomate. Viene utilizzato come ingrediente anche nella salsiccia e nella soppressata. Tipica ricetta di Amendolara è la “ sauzizza cu i vrucculi i rapa”, della peperonata piccante, di peperoni e patate, “maccaruni a ferretto cu ‘nnuglia”, “pipiruss gov e sauzizza”, trippa e patate. Ben si presta sia al modo di cucinare dell’entroterra che di quella delle fasce litoranee.
Ricetta proposta dallo chef:

Sauzizza cu cime i rapa ( salsiccia e cime di rapa)

Ingredienti per 6 persone:

 
600 g di salsiccia fresca,
500 g di cime di rapa,
2 spicchi d’aglio,
1 peperoncino rosso secco di media piccantezza,
Sale q.b.,
Olio extravergine
d’oliva q.b
Procedimento:
Mondate le cime di rapa e disponeteli un una pentola con un filo d’olio, l’aglio e il peperoncino spezzettato. Lasciate cuocere le cime di rapa per circa 5 minuti e aggiungete un po’ di acqua se necessario. Tagliare a parte la salsiccia a rondelle grosse e fatela soffriggere in una padella grande con un po’ di olio. A questo punto aggiungere alla salsiccia le cime di rapa e fate cuocere per circa dieci minuti e salare. Servire ben caldo con accanto del buon pane dell’alto Jonio calabrese.
Articolo pubblicato sul mensile dell’Alto Jonio cosentino di attualità, politica e cultura : “Confronti” N.5/6 2009

Gastronomia amendolarese

 



La tradizione alimentare costituisce un forte richiamo turistico e culturale del posto. Contribuisce attivamente alla crescita socio-economica. La cucina è semplice, genuina e trova la punta di diamante nell’utilizzazione degli ortaggi provenienti dalle campagne . La tradizione culinaria di Amendolara pone le proprie basi sulle risorse agro-colturali dell’Alto Jonio Cosentino, ed è caratterizzata dall’uso di ingredienti base comuni con i paesi della Sibaritide. Le ricette si sono poi diversificate nei diversi luoghi sia a seconda dell’uso della famiglia sia a seconda del gusto
 
personale. I primi piatti per eccellenza sono “ i rascjcatilli”, pasta fresca fatta con farina e acqua a forma di piccoli pezzi cavati con le dita e conditi con sugo di pomodoro fresco e basilico o con ragout di agnello e una spolverata di peperoncino rosso piccante della zona. Molto prelibati sono anche “ i ferrazuoli”, pasta fresca a forma di bastoncini cavati con un ferro sottile e quadrangolare e conditi con ragout meridionale di carne. Sono entrambi piatti della tradizione contadina, spesso arricchiti dal gusto intenso della ricotta stagionata e grattugiata in scaglie direttamente sopra il piatto al momento del servizio. La ricotta, di produzione artigianale, sostituiva negli anni ’50 il formaggio utilizzato solo nelle “grandi feste”. I meno abbienti erano soliti utilizzare “a mullic”, pane raffermo grattugiato e spadellato in poco olio extravergine di oliva insieme a polvere di peperoncino e a un trito d’aglio, che imprime ai piatti un gusto particolarmente delicato ma saporito nello stesso tempo. I dolci più tipici sono: Quelli del periodo di Natale: – “I crispi” sono fatti con farina di grano , acqua e lievito, sono a forma di grandi anelli, fritti in olio extravergine di oliva a 170 °C. si possono degustare con zucchero a velo; – “I cannaricoli”: grossi gnocchi fatti di farina, pepe nero, vino ed un pizzico di lievito, anche questi fritti nell’olio di oliva. Nel periodo pasquale è usanza comune preparare le “cullure” e i “pastizzi”. La “cullura” è il pane pasquale, ha un significato originale di nuova vita, l’impasto è fatto con farina, uova cannella, semi di finocchio, strutto, sale e lievito, il tutto viene lavorato e modellato a forma di corono intrecciata nelle quali uova in numero sempre pari. I “pastizzi” sono tipici del periodo pasquale, sono dei pseudo- calzoni fatti con farina, strutto, sale e pepe, ripieni di carne ed interiora di capretto, conditi con pepe, prezzemolo, aglio e rosolati in olio di oliva con l’aggiunta di salsiccia, cotti in forno.
 

Digestive system (human body)

 

1. Introduction

People are probably more aware of their digestive system than of any other system because of its frequent messages. Hunger, thirst, wind (gas). And bowel movements all affect daily life. Eating well and regular exercise are the bedrocks of good digestive health. Plenty of fresh vegetables and fruits, adequate fibre, and a low intake of animal fats and salt are simple guidelines for maintaining not just the wellbeing of the digestive system but that of the whole body.
sistema digestivoAfter being eaten, or ingested, food embarks on a journey. It can take up to 24 hours to cover a distance of 9 m ( 30 ft), through various muscular tubes and chambers. The process begins at the mouth, where food is crushed and ground down by the teeth during chewing. The resulting ball, or bolus, of food continues down the throat (pharynx), then travels through the gullet ( oesophagus) to the stomach, small intestine, large intestine, and anus. In the small intestine, chemicals break down food into molecules small enough to absorb onto the blood. What cannot be digested is compacted as faeces in the large intestine and eliminated through the anus. Food travels through the system by a process of muscular contraction called peristalsis. The digestive system includes several glands: the spilt-making salivary glands; the pancreas, which produces powerful digestive juices; and the body’s major nutrient processor, the liver.

Calabria to taste

 


Calabria to taste

 


How to make a good Salsiccia di Calabria PDO ( protected designation of origin)
In this brief presentation I am first going to explain some of the differences between Italian salami. I will then illustrate how the meat paste is made and a brief description of the maturation process. At the end of my presentation I will show you how to cook the Salsiccia di Calabria PDO.
So first, why should you buy Salsiccia PDO? It is the most known salami of southern part of Italy, its territory of origin encompasses all provinces of Calabria. The differences between the various kind of dry-cured Italian salami are due to the kind of meet they contain in, the proportion of the lean to fat, spices. Italian salami are different from region to region, they can be un-smoked or smoked, hot or sweet each with their own formulas, curing and maturation. Those of Calabria are redolent with red hot pepper in powder and wild fennel seeds, they are generally cured in a way that produce a light mold covering. Salsiccia PDO production has always been due to the presence and life activities of lactic acid bacteria (LAB) in the meat and the meat preparation area.

The meat paste
Regional traditions dictate the types of meat and fat used in the manufacture of salami. Calabrians love to use shoulders, cheecks and fillets. For fat they use “fat bellies”. Meat that are chopped or are a medium or large grind can be mixed fairly aggressively since the final product will not have a homogeneous texture of fat to lean. However, the fat in fine ground paste can become excessively smeared during the mixing and blending stage if it is not kept very cold. Mixing should be done under the most strict sanitary conditions; if you mix by hand, use sterile latex surgical gloves to prevent cross-contamination. Essential to the process of making fermented dry cured sausages is the presence of sugar in the form of glucose.
As you can see, the salt is essential because it is involved in the biochemical activities we call curing as well as the inhibition of some microorganisms found in the meat. Because LAB are salt tolerant, they get a jump start over less desiderable salt intolerant microorganisms. The purpose of the spices instead is to impart the desired the taste and aromas that the salami maker prefers. It is absolutely essential that you use fresh spices for consistent results. The meat paste is stuffed into casing and tied. The casing used must allow moisture to escape the salami throughout the manufacture. For Salsiccia PDO we use natural casing, because they are edible, they contribute to the overall taste of the salami.
Maturation process
The maturation process of salsiccia PDO production can be thought of being subdivided in three distinct phases: curing , incubating ( fermentation), and drying (aging); each of these phases require different conditions of temperatures and relative humidity.
  1. Curing phase
This is the beginning of the maturation process. This phase begins immediately upon the addition of salt. In the old, traditional method, after grinding and mixing, the paste was put under refrigeration for “holding period” of approximately 24-48 hours to cure. Generally the concentration of salt is 2.5-3.5% of the weight.
  1. Incubation phase
Some of the odour is generated by the enzymes in meat and digestive activities of the microorganisms that cause glycolysis, proteolysis, lipolysis and lipid oxidation. These chemical and enzymatic reactions during dry sausage fermentation process degrade porteins into peptides. Amino acids are further degraded into amines and other aroma compounds.
  1. The drying phase
After incubation, the salami are dried in order to lower the water content of the meat. At the conclusion of this phase, the salami can be held without refrigeration. The drying may last 30 days or more depending upon the diameter of the salami. The reduced availability of water prevents growth of spoilage bacteria.

Method of cooking a good Salsiccia
The sausage can be eaten roasted on hot coals after a week of maturation, or it can be eaten in thin raw slices after a complete drying phase accompanied with a slice of sourdough bread and a glass of red wine.
Enjoy it
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The Gastronomist- Il Paladino del Gusto by Giuseppe Salvatore PALADINO di Amendolara is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported License.
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