Rapida introduzione  della coltivazione del mais in Italia. Iniziazione, 
progressione e declino della pellagra
di Giuseppe, Salvatore PALADINO
 
Il mais, dopo il XVII secolo, aveva liberato gran parte della popolazione 
dalla dipendenza alimentare cerealicola tradizionale, ma al contempo aveva dato 
il via ad un’ulteriore breccia nelle difese sanitarie dell’organismo 
umano.

Anche nelle regioni della Francia,  Spagna, Romania, fra i 
negri e le popolazioni meno abbienti del sud degli USA, il mais è stato oggetto 
di utilizzo alimentare per la popolazione, ma le ripercussioni sotto forma di 
pellagra nei suoi diversi stadi della patologia non acquistarono quella 
intensità che caratterizzò l’Italia settentrionale per l’intero XIX secolo e 
oltre. La pellagra non era solo legata all’alimentazione a base di mais, ma 
dipendeva anche e soprattutto dai modi con cui il cereale era preparato e 
mangiato.  I  Popoli delle civiltà Azteca e Maya lasciavano in ammollo il mais 
per renderlo commestibile con l’acqua di calce una soluzione alcalina (tecnica 
detta di nixtamalizzazione). Questo processo permetteva di rendere 
“biodisponibili” per la digestione la vitamina Niacina e un importante 
aminoacido, il triptofano, che, a sua volta, si converte in niacina. L’antica 
pratica di mettere l’impasto di mais a bagno per una notte in acqua di calce 
prima di fare le tortillas non fu mai trasmessa a quei paesi del Vecchio Mondo 
nei quali fu diffuso il mais, o alle comunità il cui alimento principale era 
costituito dal mais. Questo, quasi inevitabilmente, portò alla diffusione della 
malattia da carenza di niacina: la pellagra. Italo Giglioli, fra gli altri, fin 
dai primissimi anni del  ’900  pur non possedendo nessuna nozione vitaminica, 
aveva individuato perfettamente il nocciolo della situazione, insistendo sui 
danni provocati dall’alimentazione “quasi esclusivamente maidica di gran parte 
dei nostri contadini”, ma soprattutto dei contadini di quelle parti d’Italia 
dove la farina di  granoturco si consuma sottoforma di mal preparata polenta 
mangiata insipida e priva di condimenti impedendo il rialzo del valore 
nutritivo. L’elemento scatenante, in effetti, consisteva non tanto nella polenta 
in se e per se, quanto nel suo bassissimo valore nutritivo da un punto di vista 
vitaminico, ma questo lo si appurò molti anni dopo, quando si scoprì che il 
processo di bollitura, necessario alla farina di granoturco per essere 
trasformata in polenta, liberava e disperdeva anche quella minima quantità di 
vitamina PP (del gruppo B) in essa contenuta. Non essendo tale perdita 
compensata in altra maniera, si presentavano a lungo andare  manifestazioni 
diarroiche e cutanee e in fine più o meno accentuate forme di demenza con 
tendenze suicide.

Clinicamente, la malattia è identificata dalle tre D: – 
dermatite, diarrea e demenza – e, se non viene curata, la pellagra può portare 
alla morte nel giro di quattro o cinque anni. All’ ultimo stadio della malattia, 
a volte c’era il ricovero in manicomio, di individui in prevalenza maschile, 
braccianti, con psicosi differenti ma in molti casi più che di cure mediche 
specifiche avevano semplicemente bisogno di mangiare.“Essere un pellagroso 
comportava diversi disagi e significava inoltre essere etichettati con un 
marchio infamante. Tuttavia, adattarsi ad essere un pellagroso, poteva essere la 
strada giusta talora, si voleva essere ammessi  alle locande sanitarie e 
mangiare in maniera  gratuita e si aveva anche la possibilità d ricevere a 
titolo gratuito in base alla legge  427 del 21/07/1920 alcuni kg di sale”. Né la 
pesca delle rane (nelle zone del Po’), né i furti potevano essere considerati 
rimedi affidabili, anche se in determinate circostanze hanno consentito di far 
sopravvivere intere famiglie di contadini che dopo il 1869 si trovavano stretti 
fra la tassa del macinato e una drastica e progressiva riduzione delle giornate 
di lavoro.
Ai malati di pellagra ricoverati nelle apposite strutture si 
tendeva a dare un pasto abbondante più che variato. Come una cattiva 
alimetazione poteva far precipitare nella malattia, così una terapia alimentare 
(che spesso era anche l’unica strada percorribile) poteva restituire la salute. 
Di questo i primi ad esserne convinti furono i medici.  Per tentare di frenare 
 la diffusione che nel 1776 era considerata come nuova malattia, il proclama 
proibiva a chiunque di raccogliere da fondi  allagato granoturco inacidito e di 
farne uso come cibo destinato all’alimentazione umana.  La Pellagra si presenta 
come malattia sociale, che colpiva esclusivamente le classi povere perchè non si 
potevano permettere di aggiungere altri alimenti per innalzare il valore 
nutritivo del pasto come potevano logicamente fare quelli che godevano di una 
certa agiatezza.
Il mais, dopo il XVII secolo, aveva liberato gran parte della popolazione 
dalla dipendenza alimentare cerealicola tradizionale, ma al contempo aveva dato 
il via ad un’ulteriore breccia nelle difese sanitarie dell’organismo 
umano. Anche nelle regioni della Francia,  Spagna, Romania, fra i negri e le 
popolazioni meno abbienti del sud degli USA, il mais è stato oggetto di utilizzo 
alimentare per la popolazione, ma le ripercussioni sotto forma di pellagra nei 
suoi diversi stadi della patologia non acquistarono quella intensità che 
caratterizzò l’Italia settentrionale per l’intero XIX secolo e oltre. La 
pellagra non era solo legata all’alimentazione a base di mais, ma dipendeva 
anche e soprattutto dai modi con cui il cereale era preparato e mangiato.  I 
 Popoli delle civiltà Azteca e Maya lasciavano in ammollo il mais per renderlo 
commestibile con l’acqua di calce una soluzione alcalina (tecnica detta di 
nixtamalizzazione). Questo processo permetteva di rendere “biodisponibili” per 
la digestione la vitamina Niacina e un importante aminoacido, il triptofano, 
che, a sua volta, si converte in niacina. L’antica pratica di mettere l’impasto 
di mais a bagno per una notte in acqua di calce prima di fare le tortillas non 
fu mai trasmessa a quei paesi del Vecchio Mondo nei quali fu diffuso il mais, o 
alle comunità il cui alimento principale era costituito dal mais. Questo, quasi 
inevitabilmente, portò alla diffusione della malattia da carenza di niacina: la 
pellagra. Italo Giglioli, fra gli altri, fin dai primissimi anni del  ’900  pur 
non possedendo nessuna nozione vitaminica, aveva individuato perfettamente il 
nocciolo della situazione, insistendo sui danni provocati dall’alimentazione 
“quasi esclusivamente maidica di gran parte dei nostri contadini”, ma 
soprattutto dei contadini di quelle parti d’Italia dove la farina di  granoturco 
si consuma sottoforma di mal preparata polenta mangiata insipida e priva di 
condimenti impedendo il rialzo del valore nutritivo. L’elemento scatenante, in 
effetti, consisteva non tanto nella polenta in se e per se, quanto nel suo 
bassissimo valore nutritivo da un punto di vista vitaminico, ma questo lo si 
appurò molti anni dopo, quando si scoprì che il processo di bollitura, 
necessario alla farina di granoturco per essere trasformata in polenta, liberava 
e disperdeva anche quella minima quantità di vitamina PP (del gruppo B) in essa 
contenuta. Non essendo tale perdita compensata in altra maniera, si presentavano 
a lungo andare  manifestazioni diarroiche e cutanee e in fine più o meno 
accentuate forme di demenza con tendenze suicide.  Clinicamente, la malattia è 
identificata dalle tre D: – dermatite, diarrea e demenza – e, se non viene 
curata, la pellagra può portare alla morte nel giro di quattro o cinque anni. 
All’ ultimo stadio della malattia, a volte c’era il ricovero in manicomio, di 
individui in prevalenza maschile, braccianti, con psicosi differenti ma in molti 
casi più che di cure mediche specifiche avevano semplicemente bisogno di 
mangiare.“Essere un pellagroso comportava diversi disagi e significava inoltre 
essere etichettati con un marchio infamante. Tuttavia, adattarsi ad essere un 
pellagroso, poteva essere la strada giusta talora, si voleva essere ammessi 
 alle locande sanitarie e mangiare in maniera  gratuita e si aveva anche la 
possibilità d ricevere a titolo gratuito in base alla legge  427 del 21/07/1920 
alcuni kg di sale”. Né la pesca delle rane (nelle zone del Po’), né i furti 
potevano essere considerati rimedi affidabili, anche se in determinate 
circostanze hanno consentito di far sopravvivere intere famiglie di contadini 
che dopo il 1869 si trovavano stretti fra la tassa del macinato e una drastica e 
progressiva riduzione delle giornate di lavoro. Ai malati di pellagra ricoverati 
nelle apposite strutture si tendeva a dare un pasto abbondante più che variato. 
Come una cattiva alimetazione poteva far precipitare nella malattia, così una 
terapia alimentare (che spesso era anche l’unica strada percorribile) poteva 
restituire la salute. Di questo i primi ad esserne convinti furono i medici. 
 Per tentare di frenare  la diffusione che nel 1776 era considerata come nuova 
malattia, il proclama proibiva a chiunque di raccogliere da fondi  allagato 
granoturco inacidito e di farne uso come cibo destinato all’alimentazione umana. 
 La Pellagra si presenta come malattia sociale, che colpiva esclusivamente le 
classi povere perchè non si potevano permettere di aggiungere altri alimenti per 
innalzare il valore nutritivo del pasto come potevano logicamente fare quelli 
che godevano di una certa agiatezza.